Questo blog l’ho chiuso oltre 7 anni fa, per un lungo periodo mi ero anche scordato di averlo mai gestito. Poi, un po’ di tempo fa, mi arriva un commento. Oggi un altro che riguarda il mio primo romanzo pubblicato addirittura nel 2011. Mi sono messo a spulciare tra le impstazioni perché chi se lo ricordava più come si fa? Capito per caso nella pagina delle statistiche e faccio un salto sulla sedia. Regolari, costanti, mese per mese, anni per anni, c’è sempre stato chi è passato qui dentro a dare un’occhiata.
Pazzesco, davvero pazzesco!
Oggi, Chiara mi ha fatto i complimenti per quella prima, lontana pubblicazione. E allora, se qualcuno continua a passare qui dentro mi sembra giusto dargli qualche aggiornamento.
Nel 2016 ho pubblicato Mi chiamo Ugo, romanzo che tanto ha fatto parlare di sé per le tematiche descritte, ma ormai introvabile perché l’editore non ci ha mai creduto veramente tanto da toglierlo dal mercato non appena scaduto il contratto. Le uniche copie disponibili si trovano solamente nel circuito bibliotecario di BrianzaBiblioteche.
Nel 2018 le pubblicazioni sono state due: Giallo d’Ischia, e penso che dal titolo si capisca tutto, e Mi chiamo Simone il libro che fino a oggi mi ha dato le più belle soddisfazioni, non ultima essere diventato uno spettacolo teatrale.
Non mi sono mai fermato, la voglia di scrivere è sempre stata tanta e il Covid mi ha offerto la svolta che, senza lockdown e ammennicoli vari, forse non avrei avuto la possibilità di affrontare. Ho incrociato per caso un serissimo e moderno corso di scrittura, mi sono messo a studiare e ho messo in pratica gli insegnamenti. Tra non molto verranno pubblicati altri due romanzi e un terzo l’ho appena terminato.
Magari scriverò ancora qui dentro, ma tutte le notizie le trovate, se volete, qui:
Questa sera il tempo regge, ma i temporali degli ultimi giorni hanno ingrossato il Lambro; una massa d’acqua scura mi sta scorrendo rumorosa sotto i piedi. Sono appoggiato alla piccola balaustra metallica del ponticello che divide Via Fiume da Via Sette Gocce. Sette Gocce, ma che razza di nome è per una via, chi è quel fenomeno che se l’è inventato, avevano terminato tutti i santi, poeti, navigatori ed eroi nazionali?
Ho parcheggiato la Panda qualche decina di metri più indietro, in uno spiazzo a fianco di un rudere di casa dalla strana forma di una torre. La zona è tranquilla, nei dintorni ci sono poche case abitate da persone che si fanno i fatti loro, e qualche piccola azienda a quest’ora chiusa. Non è più nemmeno ora di transito per qualche ciclista che, salendo da Via Sette Gocce, metterebbe a dura prova polpacci e polmoni sulla ripida salita dell’Orlanda. Altri tipi di ciclisti, invece, proseguirebbero lungo Via Fiume dove, un centinaio di metri più avanti, una sconnessa e sterrata ciclabile segue il corso del Lambro attraversando boschetti e campagne. È il regno dei patiti della mountain bike. Contenti loro.
Guardo l’orologio, manca poco alle otto e trenta, l’ora fissata per l’appuntamento. La scelta del luogo l’ho valutata con scrupolo, in caso di guai ho due possibili vie di fuga, e la certezza di non avere né occhi né orecchie indiscrete nel raggio di decine di metri.
Sento il rumore di un motore alla mia destra, un’automobile sta scendendo da Via Sette Gocce, rallenta all’ingresso del ponticello e si ferma. Puntandomi i fari contro non mi permette di vedere chi ci sia alla guida. Siamo in periodo di ora legale, è ancora chiaro, ma questa è zona di boschi, ormai la luce filtra a fatica. L’autista attende qualche secondo, poi accelera e mi passa davanti. Come arriva al termine del ponte si ferma. Vedo aprirsi la portiera e scende la persona che stavo aspettando. È un tizio basso di statura, calvo, porta occhialini da miope, veste sportivo e sul volto ha un’espressione del tutto insignificante. Mentre si avvicina gli guardo le mani, sono vuote, almeno una non dovrebbe esserlo. Gli vado incontro e, appena a tiro, gli punto contro l’indice della mano destra.
«Dove sono i soldi?»
Congiunge le mani, pare stia per mettersi a pregare.
«La prego, la scongiuro, io non…»
«Ti ho chiesto dove cazzo sono i soldi!»
«Non li ho, non li ho… l’azienda non va bene, è un periodo tremendo, ho dovuto mettere buona parte degli operai in cassa integrazione.»
«Certo, come no. Chissà come mai sono sempre gli stessi che rischiano il posto di lavoro mentre tu te ne vai in giro in Mercedes e, sapendo cosa stai combinando in azienda, ti sei parato il culo creandoti un tesoretto in Svizzera. Amico, sappiamo tutto di te… e adesso tira fuori i soldi o ti metto a testa in giù dentro il fiume. Non farmi incazzare, non ho tempo da perdere. Te lo ripeto per l’ultima volta, tira fuori i soldi!»
Non si muove, continua a fissarmi con espressione supplichevole, giurerei che stia per mettersi a piangere. Gli metto le mani attorno al collo.
Guardo oltre la sua testa e, mentre mi rendo conto che il tizio, piantando l’auto in mezzo alla strada mi ha ostruito una via di fuga, per un attimo ho la sensazione che ci sia qualcosa di strano. L’istinto mi manda un preciso segnale di pericolo, sono anni che faccio questo mestiere e me la sono sempre cavata non bene, benissimo. Sono uno dei migliori nel mio ramo, ma da qualche mese avverto come un senso di stanchezza, che non è fisica ma mentale, accompagnato da una sempre più insistente sensazione di nausea.
Non agisco, sto fermo a pensare con le mani strette al collo di questo pusillanime che neanche tenta di reagire. Un paio di metri più avanti, dal lunotto posteriore della Mercedes spunta prima una chioma di capelli biondi, subito dopo una piccola fronte corrugata e infine due grandi occhi azzurri. Questo idiota, a un appuntamento del genere, s’è portato dietro la bambina.
Lei mi fissa, ha lo sguardo severo, dovrebbe essere spaventata per la situazione nella quale si trova il padre e, invece, guarda me. Stacco le mani dal collo e le lascio cadere lungo i fianchi. L’altro le porta lui al collo, per massaggiarsi, e intanto muove qualche passo all’indietro.
Io e sua figlia continuiamo a fissarci, e lo sguardo di rimprovero di una bambina mi ha come anestetizzato quattro sensi su cinque. La vista non mette a fuoco i lampeggianti delle auto della Polizia che arrivano una da Via Fiume, un’altra da Via Sette Gocce. L’udito percepisce attutite le intimazioni a non muovermi, ad alzare le braccia. L’olfatto avrebbe dovuto annusare per tempo la puzza di bruciato, e non l’ha fatto. Quando due paia di mani mi torcono le braccia all’indietro e mi ammanettano, avverto a malapena il rude contatto. Solo il gusto funziona ancora a dovere. La nausea per questo genere di vita, tanta, mi riempie la bocca.”
Se vi può interessare, cliccate sulle foto per una migliore visualizzazione.
“Di solito, a tarda sera, si riuniscono in gruppetti di cinque, sei ragazzi. Stasera, seduti sul bordo della piccola fontana sono soltanto in due, un ragazzo e una ragazza. I diciotto anni non li superano di sicuro. Bastano pochi minuti per rendermi conto che lui, da come parla, gesticola e la guarda, è vittima di una bella cotta. Che lei gradisca la corte non ho dubbi, ma a quell’età è risaputo come le donne siano più mature dei maschi. Con il suo atteggiamento gli sta dando l’illusione che sarà stato lui a conquistarla, mentre ciò avverrà se e quando sarà lei a deciderlo.
Le loro chiacchiere mi tengono compagnia mentre sto compiendo quei gesti che, ormai, fanno parte di un consolidato rituale. Mi sto preparando per andare a dormire.
Per prima cosa allargo un paio di cartoni e li stendo nel mio angolino preferito. Subito dopo, stacco da un gancio che spunta dal muro lo zainetto che contiene il sacco a pelo. Un altro paio di cartoni li apro ma li appoggio contro una parete, saranno la mia coperta. Posiziono con cura il cuscinetto che mi ha regalato Simone, l’ambulante del mercato che vende stoffe e tendaggi per la casa. Dallo zainetto tiro fuori anche la bottiglietta d’acqua, la metto vicino al cuscino. Soddisfatto, osservo il risultato di tanto lavoro e non ho niente di cui lamentarmi. Una volta sdraiato avrò sotto di me, e sarò circondato, da pietre e cotto del tredicesimo secolo, e il mio sguardo si perderà sulle travi a vista che occupano il soffitto all’interno del portico dell’Arengario.
Anche se è difficile pensarlo, almeno in un aspetto della mia attuale esistenza mi sento un privilegiato: tutte le sere potrei dormire in un posto diverso. Mi capita spesso di farlo, posti confortevoli per uno come me ce ne sono in quantità, ma l’Hotel Arengario rimane il mio preferito.
A Monza non siamo in tanti a vivere in queste condizioni e, a parte quelli che sfruttano con regolarità i ricoveri della Caritas, gli altri prediligono le architetture più moderne. Per avere conferma basta fare un salto nella vicina Piazza Cambiaghi, sotto i portici del nuovissimo palazzo che ospita la sede della Regione. Credo si sentano più a loro agio circondati da cemento e vetrate, io ho più feeling con i muri che trasudano storia.
Il sottile tira e molla amoroso dei due ragazzi prosegue, ma adesso si sono messi a fantasticare sul loro futuro. La scuola, gli esami di maturità, la scelta dell’università, il domani della loro vita.
Ho piacere ad ascoltarli, finalmente due giovani con la testa sulle spalle; ci sono sere che, a sentire certi discorsi fatti da loro coetanei, mi viene voglia di raccogliere le mie cose e andare da un’altra parte.
Loro pensano al futuro, io non più; da quindici anni quando il destino, o forse un progetto divino, me l’ha cancellato. Da allora vivo alla giornata, mi addormento ogni sera per terra e se dopo qualche ora riapro gli occhi, è perché mi è andata bene. Mi stanno regalando un altro giorno da vivere.
Dei due è lui il più calato nella parte, mi fa tenerezza, non ho dubbi che ci tenga davvero a quella ragazza. Lei continua a fare la furbetta, ma le piace la situazione, eccome.
Mi distraggo per un attimo guardando la sequenza delle travi antiche, e mi perdo quale sia l’aggancio che inizia a farli cantare.
Sento lui che accenna una canzone, è anche intonato e canticchia:
“Più ti guardo e più mi meraviglio, e più ti lascio fare, che ti guardo e anche se mi sbaglio, almeno sbaglio bene, il futuro è tutto da vedere, tu lo vedi prima…”
Lei lo zittisce con un dito poggiato sulle labbra, sorride e gli prende una mano cantando:
“Le donne lo sanno, c’è poco da fare, c’è solo da mettersi in pari col cuore, lo sanno da sempre, lo sanno comunque per prime…”
Accidenti, che bei testi, non ho idea di chi siano, ma se i due ragazzi li conoscono così bene a memoria devono essere di un cantante famoso.
E dai, su, baciatevi, ma che aspettate. E invece rimangono a guardarsi negli occhi.
A me gli occhi cominciano a chiudersi.
M’infilo nel sacco a pelo, metto sopra gli altri cartoni fino a coprirmi anche la testa. Stasera mi addormento con la compagnia di una sana gioventù, un sottofondo musicale, la mente sgombra e il cuore caldo.
Un diverso tipo di caldo, il calore di un incendio, mi ha risvegliato nel cuore della notte. Qualcuno mi aveva gettato contro una molotov.
Mi chiamo Ugo, ho sessantadue anni, sono uno dei pochi barboni, o clochard, o senzatetto, o senza fissa dimora storici di Monza. Adesso vi racconto tutto ciò che il destino mi ha regalato, dopo aver riaperto gli occhi dentro un letto d’ospedale.”
La mia prima impressione su Ugo si è rivelata esatta: direi che è il migliore dei tuoi. Ha la freschezza e la spontaneità del Fosso, con in più una forma corretta e scorrevole. E’ simpatico e gradevole da leggere, anche se, immagino, può essere più godibile per persone che conoscono Monza, mentre per i forestieri, tutti quei nomi di strade e quelle indicazioni geografiche possono significare poco o niente. Io però ho riconosciuto il Viale Cavriga, perchè tanti anni fa ho frequentato per due settimane un corso di progettazione dei giardini alla Scuola Agraria del Parco di Monza (bellissimo posto).”
Cascina Frutteto, sede della Scuola Agraria del Parco di Monza
Siamo a luglio 2014, se lo rileggesse adesso Angela si troverebbe per le mani un romanzo non diverso, ma modificato e migliorato in tante parti. Secondo me non solo non ha perso la freschezza e la spontainetà, ma ne ha guadagnato grazie alle tante revisioni, all’inizio e al finale diversi, a una più approfondita caratterizzazione dei personaggi. Ma tant’è, tutto questo lavoro non ha prodotto il risultato che pensavo di meritarmi.
Ve ne sarete accorti anche voi, nelle prime o ultime pagine di un romanzo viene sempre indicato che si tratta di un’opera di fantasia, che persone, posti e situazioni non sono reali ecc.
Andrea Camilleri, al termine della Danza del gabbiano scrive così:
“Pare che non sia superfluo dichiarare che nomi e cognomi dei personaggi, situazioni, episodi, ambienti appartengono alla mia fantasia e non alla realtà. Ma quando si scrive, anche inventando, non si fa sempre riferimento alla realtà?”
Ugo, Simone e tutti gli altri non diventeranno mai una realtà editoriale, ma se lo fossero stati mi sarei trovato in grossa difficoltà a inserire una dichiarazione del genere.
Diciamoci la verità, la perfezione non esiste, anche nelle meraviglie di ogni genere c’è sempre qualche piccolo difettuccio, magari nascosto bene, ma c’è. E io chi sono per sottrarmi a ciò?
Così, quando senza nemmeno pensarci più ricevo verso la fine di maggio la mail di un editore di Nova Milanese, tiro fuori dal cassettino della memoria il mio sogno e non mi servono tante giustificazioni. Avete presente dov’è Monza? Bene, guardando una mappa sul confine nord-ovest dove finisce la mia città inizia Muggiò. Appena finisce Muggiò inizia Nova. Nemmeno dieci chilometri e, cosa non da poco, siamo sempre in provincia di Monza e Brianza. Vabbè, direte voi, l’hanno appena abolita, ma possono questi pochi chilometri essere giudicati una grave imperfezione che inficia il mio cerchio perfetto? Chi ha detto no? Bravo, una copia omaggio del libro per te. Scrivimi… però aspetta un momento, forse è il caso che tu vada avanti a leggere.
Dalla mail ricavo una buona dose di complimenti, Ugo mi è piaciuto (l’avrà imparato a memoria, gliel’avevo mandato a novembre!), sono sicuro che sia un testo che aggiungerà valore alle nostre collane, se la cosa può interessare ci contatti. Come inizio non è male, non ho buoni ricordi di quelli che ti sbattono subito in faccia un contratto da visionare. Telefonata, colloquio informale e simpatico, vengo a sapere notizie sulla loro attività, lo sapevo già ma mi viene ribadito che sono una CE piccola, però seria e motivata e, a quel punto, accetto di visionare il contratto. Lo leggo e non ho dubbi che sia il migliore mai ricevuto. Siccome non muovo più un dito se prima non chiedo a loro, dopo qualche ora ho la certezza di avere per le mani un contratto davvero equo e onesto. Vuoi vedere che sia la volta buona?
Nel frattempo informo l’editore che in questi mesi ho apportato diverse modifiche al testo, gli mando la versione finale e dopo un paio di giorni mi fanno sapere che gli piace parecchio. Si può quindi concludere. Io sto a Monza, uno degli editori abita a Nova, un altro a Brescia ma ci tiene molto a conoscermi. Lascio a lui la piena libertà di fissare l’incontro come più gli aggrada, così facendo si arriva ai primi di giugno. Il bresciano andrà in vacanza per un paio di settimane, mi avvisa che come torna si firma il contratto e via con la nuova avventura.
Proprio in quei giorni si svolge a Milano, sui navigli a due passi dalla casa dove sono nato, il Festival della Piccola Editoria. Loro saranno presenti, decido di andare in incognito al sabato pomeriggio così avrò l’occasione di parlare con il grande capo, saggiare la qualità delle loro pubblicazioni, farmi un’idea di persona. Senza dirgli niente di niente mi porto dietro anche l’amico Fabrizio, il quale mi aveva avvisato di essere stato trattato a pesci in faccia proprio da loro. Io faccio tutto quello che devo fare prima che arrivi Fab, poi faccio lo gnorri per un paio d’ore.
Mi sembra di sentire le parolacce che Fab mi starà tirando dietro adesso. 🙂
Mentre il bresciano si crogiola al sole, io leggo i due libri che ho comprato. Per il primo non so quante volte ho dovuto temperare la matita per sottolineare i refusi. Vabbè, mi dico, era uno dei primi pubblicati… passiamo al secondo che è anche l’ultimo uscito. Già al termine della seconda pagina non credo ai miei occhi. Cambio le parole, ovvio, ma questo è quanto sto leggendo. Ocio.
«Ti parcheggio la macchina, dottore.»
«Fai attenzione, Gino.» gli metto in mano un paio di monete.
«Non si preoccupi.» mi risponde.
Notato qualcosa di strano? E quel punto dopo il quale si ricomincia con una minuscola lo ritrovo fino alla fine del romanzo. E tralascio di commentare che quel punto non ci vorrebbe proprio dato che il discorso diretto è seguito da un inciso.
Questa volta, nella mia testa il puf è un boato e, per la prima volta, mi rendo conto di averne i cosiddetti pieni.
Come il tizio finisce le ferie mi contatta per definire l’appuntamento. L’aspettavo al varco e gli chiedo ragione di quel disastro grammaticale. Mi risponde che è stata una scelta editoriale! Gli faccio chiaramente capire che a me sembra invece un’assurdità e che non ci tengo a passare per ignorante. Mi scrive che non crede io sia un autore adatto per la loro casa editrice. Non gli rispondo nemmeno, non ne vale la pena.
Il cerchio perfetto non lo realizzerò mai, ma è un sogno che mi ha tenuto compagnia per tanto tempo, è stato bello viverlo come lo è inseguire i propri sogni. A volte non riusciamo a realizzarli ma, come vi dicevo prima, la perfezione non esiste.
Ormai l’ho capito: Ugo, Simone, la trilogia dell’ispettore Presti non diventeranno mai dei libri. Sono sempre stato molto onesto con me stesso, non è corretto prendersela con la sfortuna o dare la colpa agli altri. Se avessi scritto dei romanzi validi, con tutto quanto ho tentato un editore serio l’avrei trovato, penso siate d’accordo con me. E se non sono capace di scrivere, com’è ormai evidente, penso sia una scelta intelligente smetterla.
Anche in questo blogghino non ho più molto da dire. Con tutto l’affetto che merita lo porterò a chiusura, credo sia il minimo per quello che mi ha dato, per ringraziare le persone che hanno voluto tenermi compagnia. Sarà una chiusura particolare, graduale, un intrigante intreccio tra quelle che sono state le mie grandi passioni di questi ultimi anni.
Un grazie particolare è per te Angela, per avermi suggerito l’idea.
Fino a qui niente di particolare, tutto fattibile, salvo il fatto di avere prodotto un buon romanzo che avevo desiderato scrivere in prima persona e, per omaggio, ambientarlo in quella che ormai considero la mia città. Sospetto che i più attenti di voi avranno già notato che il cerchio fino a qui tracciato non è chiuso, vero? Già, manca ancora un punto fondamentale e il cerchio, et voilà, diventa perfetto.
4) Editore di Monza.
E qui casca l’asino (cioè, il sottoscritto)!
A Monza esiste una sola casa editrice. Le avevo fatto una corte esagerata fin dai tempi del Fosso, scartato. Avevo tentato anche con Io parlo con te, ariscartato, ma ogni volta m’invitavano a insistere, a tenerli sempre in considerazione. Sono sempre stato convinto che Ugo sia un buon testo e così, senza più il cappio al collo, preparo una lettera di presentazione di quelle che non puoi non considerare e porto il plico in redazione un lunedì sera. Venerdì mattina della stessa settimana mi arriva una mail dove un collaboratore m’informa che l’editore in persona vorrebbe fissarmi un appuntamento. Nel giro di un secondo, palato, lingua e gola secchi, mani fradice di sudore, palpitazioni.
Quarto piano di un elegante palazzo in centro, ufficio del signor editore. Esordisce sgridandomi, bonariamente, che potevo chiedere di lui e consegnargli personalmente il testo perché, mi dice, “presentazioni così accattivanti e motivate sono una rarità”. Poi apre un cassetto della scrivania e mi porge un foglio dicendo: «Tenga, questo è per lei.»
Il “questo” è un loro documento interno di redazione su carta intestata, dove chi di dovere riporta su un prestampato la valutazione generale. Ci sono le caselline per i giudizi che variano da indecente a ottimo. Ugo è buono su tutto. Per la prima volta ho anche una valutazione professionale sui punti deboli e forti del testo, vengono inoltre segnalati suggerimenti su alcuni passaggi da rivedere. Alla fine il valutatore si esibisce anche in un paio di idee per un’eventuale copertina, e conclude scrivendo che il romanzo potrebbe tranquillamente trovare spazio nella loro collana xxxxx.
Mi gira la testa, e in quella giostra mentale vedo il mio cerchio perfetto realizzato.
«Lo tenga – mi dice riferito al “questo” – è un regalo. Come vede le sono state prospettate alcune idee per migliorare il testo, valuti lei se le sembrano opportune e quando avrà terminato la revisione lo porti direttamente a me. A quel punto lo leggerò io e penso che andremo in pubblicazione.»
Per fortuna che ci sono i braccioli sulla sedia, stavo per cascare in terra.
«La devo però avvisare che, essendo lei sconosciuto, l’investimento sul suo nome sarà particolarmente oneroso. Un adeguato lancio pubblicitario, la presenza del libro in tutte le librerie, le rassegne stampa, le copie omaggio, le locandine… costano un sacco di soldi, faccia conto che con meno di diecimila euro non ce la caviamo. E non possiamo accollarci tutto noi. Per questo motivo, anche nell’interesse specifico dell’autore che ha così una reale opportunità di farsi conoscere, chiediamo che lui investa su se stesso.»
Smette all’improvviso di girarmi la testa e, come nei migliori fumetti, il sogno del cerchio perfetto svanisce con un puf.
«Di che cifra stiamo parlando?» chiedo.
«L’autore deve fare a metà con noi.»
Sticazzi!
Avendone fatto io un accenno nella lettera di presentazione, è lui a tirare fuori l’argomento.
«Pensi che non riesco a far capire a quel forum di scrittori sognatori che noi non siamo una CE a pagamento. Non chiediamo soldi per pubblicare, ci mancherebbe, tutto il lavoro editoriale è a nostro carico. Ma devono pur capire che ogni esordiente è come un salto nell’ignoto, con la concorrenza spietata che c’è non possiamo permetterci di buttare via un capitale del genere. E se l’esordiente non crede in se stesso tanto da investire sul suo nome, le pare giusto che tutto il rischio me lo debba prendere io? E poi i soldi sono i miei, avrò pur diritto di farne quello che voglio!»
Ecco, bravo, l’hai detto. Con i soldi tuoi puoi farne quello che vuoi, l’impresa è tua, credo che nessuno ti abbia costretto ad aprire una casa editrice, lo stipendio e i proventi te l’intaschi tu. In tutto il mondo si chiama rischio imprenditoriale. Se hai paura di prendere legnate sui denti è perché forse non sei capace di fare il tuo mestiere, come talent scout sei una pippa, allora continua a vendere libri tradotti dall’inglese, piantala di far perdere tempo agli esordienti nostrani e vai a farti fottere.
Puf.
Sogno svanito?
Che vi credete, il Max è peggio (o meglio?) di un gatto, altro che sette vite.
Pochi mesi prima mi ero sfidato: vediamo se sei capace di scrivere un romanzo. Fatto.
Allora alzo la posta: vediamo se trovi chi te lo pubblica. Fatto anche questo.
Il blogghino era il naturale passo successivo, sentivo l’esigenza di comunicare, di far sapere a tutto il mondo che avevo firmato un contratto editoriale, che quanto prima sarebbe stato pubblicato il mio primo romanzo. Avevo grandi aspettative, tante idee in testa… non potevo certo sapere che il bonus degli eventi positivi si era già azzerato definitivamente.
Com’è andata a finire l’avventura del Fosso Bianco lo sapete tutti, ciò che non sapevo io era che ne avrei scritti altri cinque (per me decisamente migliori) che hanno la quasi certezza di non trasformarsi mai in un libro. E questo continuo ingoiare bocconi avvelenati non poteva non avere conseguenze. L’ultimo che ho scritto, Simone, l’ho portato a termine solo grazie all’aiuto di care persone. Sono passati diversi mesi da allora e non ho più voglia di scrivere, anche se mi vengono delle idee le caccio in un angolo e dopo un po’ me le dimentico.
Se mi guardo indietro, però, non posso che farmi i complimenti.
Qui dentro ho postato 215 articoli.
Ho fidelizzato 19 persone.
Ho ricevuto oltre 10.500 visite.
A livello di commenti siamo a quota 400.
Numeri che per un vero blogger sono ridicoli, ma io non pensavo proprio di raggiungerli: sono una persona alquanto riservata, timida, non conosco praticamente nessuno. Ma il web, in certi suoi aspetti, è magia. Guardando le statistiche di questi tre anni ho trovato visite da nazioni all’altro capo del mondo. Che cosa cercassero e abbiano capito non lo so, ma pensare che un giorno, anche se per sbaglio, il mio blogghino si è fatto un giro in posti che mai vedrò mi emoziona.
Rispetto a tre anni fa idee e sogni non ne ho più; editoriali, ma non solo. Avrei tanto voluto parlare di sport, dei miei sport, ma anche in questo campo sta per essere pronunciata la parola fine. Come vedete non uso termini categorici, ma è un pochino un volermi prendere in giro, far finta che ci sia sempre un piccolo spiraglio. Che qualche editore serio si faccia vivo, che i bombardoni facciano effetto. Ma se perdo anche l’illusione di illudermi…
Comunque, qualcosa per tirare avanti mi è venuta in mente. Ho riletto, per caso, un commento inserito in una valutazione di uno dei miei romanzi. Mi si è accesa la lampadina delle idee, e l’ho fatto pensando proprio alla persona che l’aveva scritto, all’unica che ha lasciato da parte impegni, lavoro, famiglia, menate, cioè la vita di ognuno di noi, per dedicarmi del tempo. L’unica che ha letto tutto quanto ho scritto. Per me la riconoscenza è sempre stato un valore.
Mi dovrò dar da fare, ma sarà un impegno bello e stimolante. E mi aiuterà a passare parecchio tempo muovendomi. Fatemi prima finire la saga del cerchio perfetto, poi s’inizia.
Ah, curiosi di sapere chi è questa persona speciale?
Avete presente la leggenda della O di Giotto raccontata dal Vasari? Ecco, una cosa così.
Il sogno nasce lo stesso giorno nel quale mi scoppia in testa la storia di Ugo. In se stesso era già qualcosa al limite dell’impossibile, ma ancora prima d’iniziare a provarci avevo una grana mica da ridere da risolvere: un cappio al collo da parte del mio editore che si sarebbe sciolto solo il 31/12/2016.
Se ancora qualcuno non lo sa (eufemismo), Il Fosso Bianco è ambientato in un posto reale – Bagni S. Filippo, alle falde dell’Amiata, Val d’Orcia, provincia di Siena, Toscana, Italia, mondo – e la parte moderna della storia si svolge qui: albergo delle terme di Bagni S. Filippo. In quell’albergo transitano ogni stagione turistica centinaia di clienti. Nello stabilimento termale anche migliaia. Io non ho pubblicato con Mondadori & Co., so bene che se voglio assecondare il mio sogno d’essere letto dovrò sbattermi un pochino. Voi cosa avreste fatto? A me venne in mente di suggerire all’editore di mettersi in contatto con la direzione dell’albergo e delle terme, renderli edotti che era stato pubblicato un romanzo ambientato presso di loro, che le loro strutture ci facevano una gran bella figura, che i proventi dell’autore erano stati devoluti in beneficienza. Se proprio il libro non piaceva, c’era almeno la sicurezza di fare un po’ di bene. Cosa ci voleva a mettersi d’accordo una volta dimostrata la veridicità di tutto quanto, iniziare con un piccolo assaggio in conto visione o deposito, pubblicizzare a costo zero la faccenda che portava beneficio soprattutto a loro due? Poco, direte voi. Tantissimo dico io, di più, oserei definirla una procedura assurda perché a tutt’oggi non so ancora se quel pseudo editore ci abbia mai provato!
Quando, giustamente incazzato, domandai la motivazione per le sole 20 copie vendute, tra l’altro tutte da me, mi risposero: “Non tutte le ciambelle riescono con il buco”. Ho fatto tanta fatica, credetemi: prima ho stramaledetto il destino per avermi fatto incontrare Scrittori in causa quando era troppo tardi, poi ho fatto di tutto e di più per arrivare al giorno in cui, nero su bianco, mi è stato detto che i miei romanzi potevo mandarli a chi mi pareva. Ma si trattava della sola trilogia dell’ispettore Presti, Ugo dovevo mandarglielo perché così imponeva il contratto. A febbraio dell’anno scorso, nella mail accompagnatoria di quell’invio doveva essere evidente lo spirito con il quale ottemperavo a un obbligo. Risultato: silenzio assenso e dopo qualche mese anche Ugo era libero dal cappio.
E io ero libero d’iniziare a sognare il cerchio perfetto.
Per smaltire l’incredulità e la rabbia mi ci sono voluti due giorni. Per quasi cinque anni ho tentato di tutto, non mi sono fatto mancare ogni genere di esame e visita specialistica, non sapevo davvero più dove sbattere la testa. Già, la testa. A livello fisico ho sopportato tutto, ma l’essere passato nel giro di pochi mesi da maratoneta a impedito, a livello morale ha fatto più danni della malattia vera e propria. Per quasi cinque anni mi sono presentato fiducioso, e anche un pochino intimorito, con i miei pacchi d’esami al cospetto di personaggi in camice bianco che si fanno chiamare professori, e ti spillano dei bei soldi. Adesso ho la certezza di avere ingrassato tanti emeriti coglioni. In tutto questo tempo non hanno fatto che continuare a ripetermi che non avevano la minima idea del perché mi facessero male le dita dei piedi, perché non fossi nemmeno più in grado di godermi qualche minuto di passeggiata. E in capo a questa massa di coglioni c’era lei, il mio medico di base. A volte mi viene quasi il dubbio di avere travisato, di non ricordarmi bene le cose, ma quella volta c’era anche Laura con me. Anche lei la sentì dire:
«Se proprio ha ancora voglia di buttare via dei soldi, vada pure a fare la visita dal reumatologo. La sua è artrosi, non ci può fare niente.»
E invece, un mese fa, ci sono andato dal reumatologo e mi sono portato dietro il solito pacco di esami. Mi chiede semplicemente che cos’ho. Per l’ennesima volta recito una filastrocca fastidiosa da ripetere, mi chiede se ho qualche radiografia recente con me. Ne ho in quantità, lascio che sia lui a scegliere. Prende una bustina contenente una radiografia dei piedi, non considera né risonanze, né ecografie né esiti di visite specialistiche. La apre mentre io inizio a scuotere la testa, quella manfrina l’ho già vissuta troppe volte. Quelli che pensavano di essere dei super esperti la documentazione nemmeno se la filavano, sul lettino di corsa perché il parere degli altri non era da prendere in considerazione. Loro erano quelli bravi, sapevano loro cosa doveva essere fatto. Quelli un pochino meno pieni di sé davano un’occhiata lunga un nanosecondo al referto cartaceo e poi… sul lettino.
Quest’uomo qui ha delle lenti spesse centimetri e gli occhi guardano uno a destra e l’altro a sinistra. Nel vederlo assumere una postura tutta sbilenca mentre guarda le carte, non so se mettermi a ridere o provare pena. Ma quest’uomo, per la prima volta in cinque anni, compie un gesto che nessuno aveva mai fatto. Estrae dalla bustina il CD e l’infila nel lettore del computer. Un gesto di una banalità sconcertante. Un gesto che se fosse stato fatto prima non avrebbe permesso alla bestia di radicarsi. Vi sembrerà pazzesco, eppure è così.
Se ne sta dei minuti a grugnire davanti al video, annuisce, punta l’immagine con la biro, disegna cerchi sul monitor, si storta ancora di più sulla sedia per vederci meglio. Quando torna a guardarmi dice:
«Direi che è piuttosto evidente qual è il suo problema.»
Nella vita capita di vivere dei momenti nei quali ti sembra di essere dentro un film oppure un sogno, non ce la fai a credere che invece sia realtà. E ascoltare per la prima volta che qualcuno ha capito il perché della mia sofferenza, non mi stimola nessuna reazione. Non gioisco, non m’incazzo, non divento rosso, non mi si gela il sangue. Niente, è come se l’anima sia uscita dal corpo andandosene a fare due passi altrove. E il cervello sia entrato in stand-by.
Lui inizia a spiegare, gira il monitor, mi fa vedere ciò che ha scoperto ma faccio fatica a seguirlo. Mi dice anche il nome della bestia, ma non lo recepisco. Ritorno in me quando inizia a parlare della cura, ma solo perché esordisce dicendo: «Non si deve spaventare, però è meglio che sappia…»
M’imbottisce di esami del sangue specifici da fare al volo, mi dice di tornare quanto prima anche con una radiografia delle mani.
«Sono già più che sicuro che sia così, aspetto solo di verificare che le dita siano ridotte come nei piedi. Ma lo so già, non può che essere così.»
Mercoledì ci sono tornato, non senza prima avere mandato a fare in culo la mia dottoressa che non voleva compilare le impegnative per i prelievi. Dopo averle urlato in faccia che si trattava della mia salute e averle fatto capire che le avrei messo la scrivania in testa, sapete che fa la stronza? Compila (a computer, moderno, figo, fa niente che in tutti questi anni non mi abbia mai misurato la pressione) le impegnative a nome di Davide. Me ne accorgo prima di uscire, gliele sbatto sulla scrivania e gliele faccio rifare.
Bastava mettere un dischetto nel lettore del pc, avrei saputo anni fa che dovevo combattere un’artrite psoriasica. La cura non è uno scherzo: una volta sola a settimana, sempre nello stesso giorno, quattro pillole di Methotrexate. Il giorno dopo Folina per combatterne la tossicità. Così per otto settimane, poi altra bordata di prelievi, visita di controllo e si vedrà come procedere. Le prime quattro pillole sono andate giù ieri dopo avere preso un mezzo spavento srotolando il bugiardino. Non ci volevo credere e l’ho misurato. Stampato in caratteri piccoli fronte/retro, alto 35 e lungo 75 centimetri!
In questo momento non sono molto in palla, ma più che l’insorgere di uno dei tantissimi effetti collaterali credo sia l’umana reazione di fronte allo scarico delle innumerevoli tensioni accumulate in questi anni.
Prima di congedarmi, mercoledì chiedo a occhi storti:
«Dottore, c’è qualche probabilità che possa tornare a passeggiare nel mio Parco?»
Si alza, gira intorno alla scrivania, sorride e mi porge la mano.